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giovedì 29 agosto 2024

RECENSIONE LIBRO "TUTTA LA VITA CHE RESTA" di Roberta Recchia


  

Da tanto tempo non mi capitava di leggere un romanzo così emotivamente toccante, coinvolgente e straziante al tempo stesso, che diventa quasi un giallo in cui finalmente la verità trionferà. E sarà una verità che riaprirà ferite mai suturate, mai rimarginate, ancora sanguinanti ma che in modi diversi salverà tutti i personaggi di cui parla Roberta Recchia, al suo primo romanzo, un vero e proprio esordio magnetico. Io stessa pur vivendo a Roma non sono riuscita a trovarlo, era in ristampa, ci voleva del tempo, neanche on line c’era disponibilità finché ho trovato una piccola libreria a cui era rimasta una sola copia. La mia copia che mi sono fatta mettere da parte per averlo subito la mattina successiva.

Da tempo non leggevo un libro che non riuscivo a lasciare, se non per fugaci attimi, sempre con l’idea di tornare alle pagine che mi aspettavano, perché dovevo andare avanti, perché ero diventata io stessa non solo lettrice ma personaggio.

E di cosa parlerà mai questo avvincente romanzo?

Uno strappo che sembrava impossibile da ricucire, una famiglia che nel corso degli anni ritrova la strada nella forza dei legami autentici e non di facciata.

Come Marisa e Stelvio Ansaldo, che nella Roma degli anni Cinquanta si innamorano nella bottega del sor Ettore, il padre di lei. La loro è una di quelle famiglie dei film d’amore in bianco e nero, fino a quando, anni dopo, l’adorata figlia sedicenne Betta – bellissima e intraprendente – viene barbaramente stuprata e uccisa sul litorale laziale, e tutti perdono il proprio centro. Quell’affetto e quella complicità reciproca non ci sono più, solo la pena per la figlia persa per sempre.

Nessuno sa, però, che insieme a Betta sulla spiaggia c’era sua cugina Miriam, al contrario timida e introversa, anche lei vittima di un’indicibile violenza. Sullo sfondo di un’indagine rallentata da omissioni e pregiudizi verso un’adolescente che affrontava la vita con tutta l’esuberanza della sua età, Marisa e Miriam devono confrontarsi con il peso quotidiano della propria tragedia. Il segreto di quella notte diventa un macigno per Miriam fin quando – ormai al limite – l’incontro con Leo, un giovane di borgata, porta una luce inaspettata: l’inizio di un amore che fa breccia dove nessuno ha osato guardare.

Ebbene la vita di Marisa e Stelvio Ansaldo è divisa in due parti: quella di prima e quella di dopo.

Ho pensato che in fondo tutti noi siamo stati un prima e un dopo di qualcosa, a volte di qualcuno, più spesso di un evento talvolta tragico o che solo noi abbiamo vissuto come tale.

Perché il dolore non è universale, ma intimo e personale. Ognuno di noi di fronte allo stesso dramma ha una gamma di sfumature della sofferenza e dello strazio senza fine, colori che nascono dalla nostra mente, pennellate astratte di un’anima sbrindellata.

Il prima nel libro è rappresentato dalla storia d’amore tra Marisa e Stelvio vissuta alla fine degli anni ’50. Il dopo è costituito dalla loro sopravvivenza dopo la tragica morte della loro figlia Betta.

Un muro che crolla e che spezza le singole esistenze, vite che non hanno più motivo di essere chiamate tali. Per Marisa non esiste più nessun altro, lei non è più moglie e donna, dormirà nel letto della figlia, si disinteresserà di tutto e tutti, anche del dolore del marito diventato solo una presenza silenziosa.

Miriam si terrà il suo dolore, cercherà di lenirlo con sostanze pericolose ma il fatto che nessuno sappia in famiglia che anche lei era presente in spiaggia quella notte, che anche lei ha subito violenze, che lei ha visto morire la cugina… il fatto che genitori assenti sempre in giro per il mondo non si siano mai resi conto della sofferenza della figlia, così tangibile, lampante, evidente persino per gli estranei è uno dei punti del romanzo che più fa riflettere e arrabbiare.

Una sedicenne lasciata sola con un segreto troppo grande da custodire che finirà per lacerarla quasi fino alla morte.

A questo rincorrersi di emozioni, strazi e dolorosi ricordi, si aggiunge quella che l’autrice chiama la “dimenticanza”.

“La dimenticanza. Il tempo passava ed era la dimenticanza ad affliggere Marisa Ansaldo. Erano i momenti in cui il dolore si faceva più palpabile e lasciava filtrare la normalità come luce attraverso i punti lisi di una stoffa, il piacere spontaneo che arrivava da un profumo di  pane appena sfornato, il conforto della tazza calda tra le mani in una mattina rigida d’inverno, un motivetto cantato distrattamente stendendo il bucato sulla terrazza condominiale al sole della primavera, il sorriso con cui accoglieva le telefonate di Ettore, la vita che chiamava. E quando lei involontariamente, rispondeva, un attimo dopo, sprofondava in laceranti sensi di colpa, perché aveva scelto di sopravvivere alla sua creatura, che era diventata polvere. Allora per sfuggire alla dimenticanza, restava chiusa nella sua solitudine. Sceglieva che il suo tempo scorresse tutto tra quelle mura, che custodivano il ricordo di Betta. L’idea di allontanarsene, anche per poco, le dava pena. Le pareva di abbandonarla”.

E se Marisa combatte per non dimenticare, Miriam brama la dimenticanza perché il ricordo è struggente, le toglie il fiato, il sonno che quando arriva è solo un atroce buio colmo di incubi.

Solo l'aiuto di figure libere dal fardello del dolore, ma prigioniere dell'amore per la loro salvezza, saranno in grado di far cadere le cataratte che stavano impedendo di vedere la strada che continuava il suo tragitto e non deviare verso il baratro.

Tutta la vita che resta è un romanzo prezioso e dolcissimo, doloroso, accogliente, intimo e corale, che esplora i meccanismi della vergogna e del lutto, ma soprattutto dell’affetto e della cura, e li fa emergere con una delicatezza sapiente, capace di incantare e sorprendere.