Racconto ispirato alla foto di Adolfo Valente
La finestra di
quella piccola soffitta di fortuna era piccola, angusta, limitata quasi quanto
la sua vita.
Ottimo luogo per
nascondersi e non farsi più trovare se non da se stessi.
Perché era
questo ciò che le serviva in quel momento.
In fuga da tutti
per ritrovare la ragazza che era stata fino a poco tempo prima o forse, per “trovarsi”,
scoprirsi, ora, adesso, in questo preciso istante per la prima volta.
Spegnere il
mondo, staccare la spina, cancellare i ricordi, lasciare fuori la vita e tuffarsi
nel suo universo interiore che era immenso, grandioso, dispersivo e pieno, forse
troppo, di scene che avevano segnato la sua anima ancora agonizzante.
Cicatrici mai
rimarginate che si rifacevano vive con stille di lacrime e dolore.
Perché fa così la
vita quando il buio ti avvolge e ti ammanta la vista, quando persino respirare
diventa un gesto che bisogna ricordarsi di fare.
Si guardò
intorno con aria sgomenta e impaurita, la stanza era spoglia: un letto
malandato, uno specchio che aveva riflesso immagini di guerra, una vecchia
scrivania che si portava dietro rumori di aerei e bombardamenti, una sedia in
precario equilibrio con mattonelle traballanti.
Sorrise pensando
che anche gli oggetti possono perdere il loro equilibrio, in bilico sulle loro
certezze, in perenne oscillazione tra ciò che furono e ciò che sono.
Si avvicinò allo
specchio e lentamente si spogliò. Portava una biancheria semplice la cui
capacità seduttiva in quel momento le sfuggiva presa com’era dai suoi tanti
pensieri ancora da cancellare.
Spogliarsi, lo
sapeva benissimo, era anche un modo per liberarsi dal peso che si portava
dietro. Mettersi a nudo in tutti i sensi, nel fisico e nell’anima.
Guardarsi
cercando di “ritrovarsi” in quell’immagine che lo specchio le rimandava e in
cui lei non si riconosceva più.
Si rannicchiò
sul letto, abbracciò le gambe, lasciò che il volto ci si adagiasse e guardò
quella piccola finestra da cui filtrava una luce scarsa per chiunque ma solo
per lei eccessiva.
Si, perché quel
vuoto non poteva essere rischiarato neanche da un raggio di sole.
Il buio dentro
non si può illuminare, l’anima è abituata a quel torpore che è scomparsa di
vita, percezione di una lenta agonia, pulsazione di un tormento senza fine.
E le tornarono
alla mente le mani di quell’uomo, che conosceva fin da piccola e di cui si
fidava come se fosse stato un padre. Le tornò in mente il dolore, la paura, la
violenza, le minacce, il silenzio e poi… poi… la sua lenta morte.
Quella morte interiore
che nessuno vede nel preciso istante in cui sai che hai smesso di vivere per
sempre.
Perché ciò che è
dentro non si vede, ciò che è dentro lo senti solo tu e il tuo sentire è urlo
senza voce, sono grida mute.
Un pianoforte
senza tasti.
E da quel giorno
quell’uomo le rubò se stessa, i suoi sogni, i suoi progetti, la sua vita.
Morì allora. Lo
sapeva.
Di notte si
svegliava madida di sudore in preda agli incubi e talvolta il suo inconscio le
proponeva la rappresentazione di una lapide con la sua data di nascita e quella
di morte.
Strano essere
morti e continuare a “vivere”!
Assistere come
estranei ai propri gesti che sono recita di vita su di un palcoscenico da cui
si vorrebbe scendere.
Non fece nessuna
denuncia, si accartocciò su se stessa fino a quando decise di fuggire.
E adesso che
sentiva ancora addosso il suo odore e quelle mani… adesso le lacrime
cominciarono a rigarle il viso.
Dapprima fu un
pianto silenzioso, discreto, piccole gocce di dolore che planarono sul letto
senza far rumore.
Poi si lasciò
andare ad un pianto dirotto, singhiozzi che le soffocavano in gola.
Si sdraiò sul
letto ed abbracciò un cuscino, pensò che forse sarebbe stata l’unica cosa che
avrebbe abbracciato da lì in poi.
Orfana di un’affettività
sottratta con la forza e difficilmente recuperabile.
Pianse lacrime
mai versate per la prima volta, strinse in un pugno il lenzuolo e lo
accartocciò tra le mani con tutta la rabbia e la forza che aveva dentro.
Ecco.
Una prima
reazione cominciava a dare segni di quella vita che voleva tornare ad essere
vissuta.
Poi si alzò, con
la lentezza di chi non conosce il tempo e piano, si avvicinò allo specchio.
Guardò il suo volto
rigato dalle lacrime, gli occhi rossi. Quella era lei ora.
Si voltò verso
la finestra, la stanza si era fatta improvvisamente più buia, c’erano nubi e
tuoni, cominciò a piovere.
Sorrise e pensò
che anche il cielo stava piangendo con lei.
Quante cose,
quante sensazioni, quante emozioni stava vivendo in quel preciso istante.
Dolore, rabbia, vendetta e voglia di ricominciare.
Luce e buio,
morte e vita in un unico battito di cuore.
Doveva scriverle
queste cose, pensò che doveva farlo e subito. Altrimenti sarebbero sparite come
folate di vento.
Scorse sulla
vecchia scrivania dei fogli di carta bianca e una penna stilografica.
Erano sempre
stati lì? Non ricordò di averli visti prima ma la sua emotività fortemente
compromessa forse li aveva celati alla vista.
Si sedette su
quella sedia traballante, ora erano entrambe in precario equilibrio e ancora
una volta, questo pensiero la fece sorridere. Da quanto tempo non sorrideva? Da
quanto tempo non faceva queste assurde ma ironiche associazioni di pensieri?
Non lo ricordava.
Poi, con la
stessa calma di chi non conosce tempo, prese in mano la penna stilografica e
cominciò a scrivere. Era tanto che non lo faceva.
Di getto riversò
su quei fogli un fiume di parole, un mare di domande, di ricordi, riflessioni,
pensieri. Passato e presente, così, immagini appese ad un’anima ancora da
ricostruire. Quelle stesse parole che non avevano ancora avuto un suono si
trasformarono in voce d’inchiostro.
Era notte quando
finì…
Accese una
piccola lampada e rilesse tutto ciò che aveva scritto.
Era notte quando
finì ma le prime luci dell’alba le fecero leggere un’altra lei.
Fu solo allora,
quando la pioggia cessò e il mattino fece capolino dalla piccola finestra, che
ebbe la certezza della sua rinascita.
Perché fa così
la vita a volte. Ti fa morire per permetterti di nascere nuovamente.