Etichette

martedì 29 luglio 2014

PER SEMPRE DISTANTI


Poesia ispirata alla foto di Gianpiero Di Molfetta



Sono qui, nella luce del mio buio
a ricordarmi di te,
quando mi portavi nei tuoi pensieri
e in quella tenera bugia di averci accanto.
Sfiorandomi la pelle disegnavi nuovi viaggi,
altri sapori e mille baci ancora da inventare.
Respirandoci fingevamo di non saperci feriti
da quei domani lontani
che abbiamo riposto in vuoti di memoria.
E ora sono ancora qui, nel buio della mia luce
a guardarci per sempre distanti.



domenica 13 luglio 2014

TITOLI DI CODA


Immagine presa dal web


Gli sorrise, ma di un sorriso spento, arreso, rassegnato.
Agli angoli della bocca piccole rughe a solcare dolori passati e mai dimenticati.
Sorrideva fingendo una serenità che non aveva, una normalità che non le apparteneva, una vita come tante e proprio come tante, una non vita.
Si guardarono senza parlare. Erano passati circa vent’anni dal loro ultimo incontro, dalla fine della loro storia, da quella rottura che evidentemente ebbe, con il tempo, ripercussioni diverse per entrambi. Non si cercarono più, nessuno dei due volle sapere nulla dell’altro.
Curiosi i percorsi della mente e le scorciatoie che si pensa di prendere al solo ed unico scopo di difendersi. E sempre è una difesa da noi stessi.
E ora, che si trovarono l’uno di fronte all’altra, come rimediare a quel silenzio voluto e cercato? Come fingere, come recitare, come mentire senza mandare in tilt i grovigli dell’anima, senza far riemergere emozioni insabbiate e rinnegate? Come fare ora a stare lì e gestire quel terremoto interiore che in modo diverso, entrambi stavano provando?
Fu lui a rompere il silenzio:
- Ciao Alessandra, come stai?
Quella voce, la sua voce non l’aveva mai dimenticata. Emozioni in subbuglio e nessun appiglio a cui sorreggersi.
- Bene grazie e tu?
- Tutto bene anche per me.
- Ottimo.
Quante cose mai dette, parole che aleggiavano nell’aria e che forse neanche in quell’occasione sarebbero state pronunciate. E quanto male possono fare i ricordi quando un abbandono non è stato mai verbalizzato, spiegato, chiarito. Omicidi emozionali coperti con sabbia di codardia.
- E come mai da queste parti? – chiese lei con un filo di voce.
- Non so se hai saputo ma è morta mia madre e devo mettere a posto la cappella di famiglia. Ma tu vivi ancora qui?
Non sapeva, lui, non sapeva cosa avrebbe voluto sentirsi dire.
Non sapeva, lei, non sapeva cosa sarebbe stato meglio dire, perché ogni informazione poteva essere ancora una volta motivo di fuga, o di crollo, o esplosione di rabbia o forse peggio, ci poteva essere il tentativo di un riavvicinamento per lei impensabile.
Perché imparò presto a non dare mai più una seconda occasione a chi, in uno scontro fuoco, non ti finisce solo per sbaglio.
- No, io non vivo più qui da vent’anni ma come te ho la casa di famiglia. Non torno mai in questo luogo. Almeno tento di evitarlo.
- Ti sei sposata poi?
Era una domanda che la irritò, era forse una curiosità scontata ma come osava ora, chiederle se si era sposata? Dopo che lui, lui stesso, aveva fatto crollare tutto, come un castello di sabbia con un’onda di follia considerata da tutti incomprensibile.
Fuggì senza dire nulla il giorno prima del loro matrimonio.
Un trauma che forse non aveva mai superato, una rabbia che sentiva tornare a galla per quel gesto senza un’apparente ragione. Non un biglietto, non una telefonata, non una spiegazione tramite un amico.
Gli sorrise ancora, ma di un sorriso spento, arreso, rassegnato.
- No non mi sono sposata, poi. Sai dopo una delusione come quella che tu sai è difficile ritrovare fiducia negli altri. Hai una vaga idea di cosa sia successo? Della delusione, lo sgomento, il vestito da sposa che mi fissava dall’armadio, la cerimonia annullata, il ristorante da pagare e qui, in paese tutti a commiserarmi, come quella povera ragazza lasciata sull’altare… No, non è stato facile ma sai, poi mi sono ripresa.  Direi subito. Il giorno in cui ci dovevamo sposare avevo deciso che sarebbe stato il giorno in cui la mia vita sarebbe cambiata così, ho preso un treno per Milano, ho salutato mia madre e me ne sono andata. In cerca di una nuova vita, un lavoro, nuove conoscenze.
Doveva essere un giorno da ricordare nel bene o nel male e così fu.
A Milano ho subito conosciuto nuova gente, nuovi amici, ho trovato un lavoro all’inizio come commessa in una libreria. Poi ho conosciuto un uomo molto interessante e che mi amava davvero, di un amore sincero, incondizionato.
Sono rimasta subito incinta, ho un figlio che è tutta la mia vita.
Con quest’uomo abbiamo convissuto per circa 10 anni poi, come tutte le storie, qualcosa non va o meglio, qualcosa non va più. E così, civilmente, di comune accordo ci siamo lasciati pur rimanendo sempre in ottimi rapporti. In fondo è pur sempre il padre di mio figlio e si adorano. Bello vederli insieme a chiacchierare, raccontarsi, confidarsi.
Poi io ho fatto carriera, ora dirigo una casa editrice e sono molto appagata. Ho trovato un compagno con il quale convivo da tre anni, sempre a Milano.
Mauro ascoltò tutto e senza rendersene conto si rabbuiò.
Lei continuò:
- E tu invece, cosa fai nella vita? Ambizioso come eri sarai diventato un amministratore delegato di qualche multinazionale. Ti sei sposato immagino. Hai dei figli?
Lui la guardò senza ritrovare più la donna che aveva lasciato tanti anni prima.
Non sapeva da dove cominciare, quello che gli disse lo ferì.
- Si, io mi sono sposato. Fu quello il motivo della mia fuga, mi ero innamorato di un’altra donna o almeno così pensavo. Ma Ale, io…
- Ti dispiacerebbe non chiamarmi Ale, è un diminutivo che usavamo un tempo, dà il senso di un rapporto di complicità che non ha più motivo di esistere. Chiamami Alessandra.
Silenzio. Ancora silenzio. Lui era in tilt, la sua vita rispetto a quella di Alessandra,  sembrava un disastro e l’aveva sempre immaginata come un animale che si stava ancora leccando le ferite, invece aveva subito cambiato vita. Non era da lei ma forse aveva ragione, dopo certe delusioni, si reagisce come mai penseremmo di fare.
E, alla luce dei fatti, aveva preso la decisione migliore.
- Si Alessandra. Volevo dirti anche se ormai è troppo tardi…
- Decisamente troppo tardi, ma ti ascolto.
- Ecco si, io, volevo dirti che Marta, la donna di cui credevo di essere innamorato era incinta e fu questo il motivo per cui sono fuggito.
Alessandra sbiancò ma approfittò del vento che venne in suo soccorso, per voltare il viso e sistemarsi i capelli. Sentì che una lacrima stava travalicando gli argini ma subito la ricacciò indietro.
Tornò a fissarlo.
- Ah questo fu il motivo? Beh cosa ci può essere di più bello di un figlio? Quindi hai un figlio di circa vent’anni come il mio Luca.
Mauro la guardò perplessa.
- Hai chiamato tuo figlio Luca? Era il nome che avevamo scelto per il nostro primo figlio se fosse stato un maschio.
- Si, scelta azzardata visto l’odio che provavo per te ma era il mio nome preferito ricordi? E poi era il nome di mio nonno, uno dei motivi per cui lo scegliemmo quando ancora sognavamo una vita felice insieme.
- Già, si ricordo. Sai le cose non sono andate molto bene, mia moglie dopo sette anni si è gravemente ammalata ed è morta ma prima di questo, è stato necessario fare analisi su analisi. Persino mia figlia Annalisa, accusava sintomi strani a livello neurologico. Ho passato anni d’inferno e sai che ho scoperto?
Alessandra ascoltava con finta indifferenza.
- No cosa?
- Che Annalisa, che ora soffre di una grave malattia genetica, non era mia figlia. Marta mi mise in gabbia facendomelo credere. E ora io sono solo con una figlia (perché è ovvio che per me è mia figlia) da accudire e una vita che sto cercando di recuperare senza riuscirci.
Mauro disse tutto d’un fiato, si era tolto un peso, si sentiva forse più leggero, forse senza più speranze.
- Ti assicuro Alessandra che l’unica donna che ho amato sei tu e in tutto questo tempo ho pensato a quanto ti avevo fatto soffrire. Mi dispiace.
Alessandra non sapeva più come uscire da quella situazione. Troppe informazioni assolutamente mai immaginate, notizie che avrebbero potuto cambiare il corso delle cose. Perché, perché non dire tutto a suo tempo?
Mauro continuò.
- Non nego che ho sperato che tu fossi libera e ho fantasticato mille volte di rifarmi una vita con te. Solo averti accanto mi fa star bene. Ma ho sbagliato tutto vero? E’ troppo tardi vero? Ah e non sono un amministratore delegato di un’importante multinazionale, sono solo un dipendente di una banca.
Ho rinunciato anche alla mia ambizione, alla carriera. A quante cose ho rinunciato mio Dio!
Si fermò, mani nei capelli e lacrime a solcare il volto, senza vergogna, senza filtri.
La donna lo osservò.
- Si Mauro, ogni scelta comporta una rinuncia. Ora è troppo tardi per tutto.
Mi spiace che la tua vita non ti soddisfi e mi dispiace per tua figlia.
Ma qui chiudiamo questa conversazione.
Immagino che non ci vedremo mai più. Quindi questo è un addio. Cerca di stare bene e vedrai che forse qualcosa di positivo arriverà. Te lo auguro.
Poi Alessandra si voltò e lentamente si avviò verso casa.
Ogni passo una fitta al cuore.
Piangeva anche lei per tutte le menzogne che gli aveva raccontato.
Dopo di lui non ci fu mai nessun uomo e Luca era suo figlio. La lasciò ad un giorno dal matrimonio senza sapere che lei aspettava il suo vero figlio, un figlio che crebbe da sola, in una città sconosciuta, in una Milano fredda e grigia come lo era la sua anima.
Nessun uomo né prima né ora. Era sola e si sentiva sola. L’unica verità era il suo traguardo nel lavoro, davvero dirigeva una casa editrice. Fu necessario buttarsi sul lavoro per continuare a vivere.
Ora era troppo tardi.
Perché ci sono errori a cui non si può rimediare e ferite che non si possono lenire, ci sono vite distrutte che non si possono risanare.
Una fuga per non affrontare la realtà che si poteva forse affrontare, chissà. Ma forse doveva andare così.
Un solo sbaglio con due esistenze distrutte.
Come sa essere crudele a volte la realtà!
E ora, che scorrano i titoli di coda, si disse tra sé e sé, in questo film dai protagonisti assenti e una regia singhiozzante come fu la sua vita. Senza colonna sonora, solo silenzi e parole tardive…
E allora che scorrano i titoli di coda.

venerdì 4 luglio 2014

MASCHERE DI VITA


Poesia ispirata alla foto di Marco Barchesi


Ho indossato mille maschere nella vita,
ho recitato ruoli che altri avevano scritto per me,
luci ad illuminare il palcoscenico dell’anima
e poltrone rosse di velluto ad applaudirmi,
sole, vuote, fredde.
Musica di scena e copione srotolato con abile maestria,
un camerino in cui lo specchio riflette
un’altra me, trucco e cerone sulla pelle.
Filtri illusori o illusioni filtrate.
E ora, ora che questa maschera mi osserva,
ci parlo, la sfioro e guardo occhi vuoti.
Battute dimenticate, dalla platea di velluto rosso
il brusio del silenzio mi esorta a continuare.
Scivola la maschera dal volto,
mille pezzi di me sul palcoscenico di una vita recitata.
Chiudete quel sipario ora,
non voglio più maschere da indossare,
calpesterò quei cocci
e tornerò a me.