Etichette

venerdì 11 novembre 2011

NOTE D'AMORE


Quando quella musica mi sfiorò, il tempo si arrese.
Quello stesso tempo che lentamente mi aveva salvata da me, con il suo incedere lento e rassicurante, ora si era fermato. Per sempre.
Un orologio impazzito, lancette pietrificate da un’emozione troppo forte.
Non era possibile che dopo tanti anni quelle note giungessero fin lì, in quel luogo affollato di presenze sconosciute e traboccante della mia assenza.
Poi, d’improvviso quella musica. La mia musica.
L’aveva creata lui. Per me.
Per me aveva inventato note sconosciute, per me le aveva plasmate ed intrecciate in quel ricamo melodioso e salvifico.
Usando tutti i tasti della sua vita, aveva composto la colonna sonora della mia anima.
Era una musica lenta, mite, delicata. Sussurri d’amore che volteggiavano nell’aria.
Era una musica che riusciva a cullare la mia inquietudine interiore, a curare le mie ferite, ad accarezzare la mia emotività sempre in bilico sull’orlo di me stessa.
Non seppi mai come fece a toccare le corde della mia fragilità, ogni accordo una sfumatura di me.
E io non so, ma quello che sentii dentro la prima volta che l’ascoltai, fu un brivido: un brivido di paura e di speranza. Perché qualcosa si sciolse come per incanto dentro me ed io cominciai a piangere. Era il suo regalo, quello di ricondurmi alla vita.
E fu il suo ultimo regalo prima che il destino spense ogni nota ed il sipario calò per sempre su quel pianoforte. Beffardo il destino!!! Non fai in tempo a ritrovarti che già ti sei perso di nuovo e questa volta per sempre.
Non ascoltai mai più quella musica che conoscevo solo io e da allora mi limitai a sopravvivere.
Finchè quel giorno, in un luogo affollato di presenze sconosciute e traboccante della mia assenza, quelle note mi travolsero scuotendomi dal mio torpore.
Solo lui conosceva quella musica. Era il suo messaggio per ricondurmi alla vita.

SILENZIO


Veniva da un paese lontano, non mi disse mai quale, forse perché mai glielo chiesi.
Ho sempre pensato che in alcuni casi per avere delle risposte occorre non fare domande.
Eppure quando un raggio di sole illuminava i suoi occhi, si riusciva quasi a scorgere il riflesso di una città martoriata tanto quanto la sua anima.
Con un groviglio inestricabile di reticenze ed omissioni difendeva il suo passato, tamponava le sue ferite.
A volte nel bel mezzo di una piacevole serata, improvvisamente i suoi occhi si incupivano.
Erano nubi che assorbivano la luminosità del suo sguardo, erano lampi senza tuoni, temporali senza lacrime.
Allora mi allontanavo perché sapevo che era questo ciò che voleva, sgusciavo via in punta di piedi per lasciargli l’intimità di cui aveva bisogno.
Sapevo che poi sarebbe stato lui a cercare me e senza dire nulla avrebbe interrotto la mia attesa.
Leggevo nel suo sguardo un ringraziamento mai pronunciato.
Eppure non mi sono mai sentita esclusa, ciò che non diceva a me era ciò che non riusciva a verbalizzare neanche con se stesso.
Compresi subito ad esempio, che le passeggiate sul lungomare gli lasciavano addosso una patina di salsedine e malinconia.
Non vidi mai i suoi occhi posarsi sulle onde. Allora cambiavo direzione, senza che se ne accorgesse lo conducevo verso un altrove, lontano da ciò che lo turbava finché non sentivo il suo respiro tornare a poco a poco regolare.
Cominciai ad abituarmi a quei silenzi carichi di tutto finché una sera, senza alcun preavviso e come un fulmine a ciel sereno sentii la sua voce dire:
“Il mare. Il mare mi ha portato qui da un paese in guerra.
Il mare più della guerra mi ha fatto perdere tutto e tutti quando già avevo perso me stesso.
Nessuno, nessuno mai ha risposto ai miei silenzi con i suoi silenzi.
Nessuno mai.”
Poi tacque. La sua voce si spense nei colori del tramonto, i suoi occhi si chiusero ad arginare quella lacrima che non scese mai a sfiorare il suo volto. Una goccia del suo mare in tempesta.
Silenzio.

ALTRE VITE


L’ho lasciato lì, mentre giocava con le sue parole, quelle appena pronunciate e quelle che mai avrebbe detto.
Le rigirava tra le mani, erano tutte le parole della sua vita. Ogni tanto qualcuna cadeva a terra calpestata dalla gente che gli passava accanto senza vederlo, che lo sfiorava senza toccarlo.
Parole perse per sempre.
Era di fronte a me, seduto a terra all’altro capo della strada, abiti sdruciti ed uno sguardo perso ad inseguire l’ultimo pensiero.
L’ho visto immergersi in un ricordo e risalire annaspando in quel mare di indifferenza umana. Ho visto una lacrima inumidire appena il bordo delle sue ciglia.
Seduta su un gradino facevo scorrere la matita sul grande foglio bianco.
La gente mi passava accanto senza vedermi e mi sfiorava senza toccarmi.
Deve essere il destino di chi decide di sedersi a terra, ci si mimetizza con l’asfalto e si diventa suolo da calpestare. In questo deve avermi avvertito come una presenza più vicina a se stesso.
Sentivo tutto il peso del suo sguardo su di me e dentro di me. Osservava i movimenti decisi di quella matita violare il candore di un foglio bianco.
Poi la matita si fermò dopo un ultimo tratto deciso a fendere l’aria.
Riposi tutto nella borsa e con cura presi il foglio su cui avevo disegnato per tutta la mattinata.
Attraversai la strada e mi ritrovai di fronte a quell’uomo che mi osservava senza dire nulla.
Raccolsi a terra l’ultima parola che gli era caduta e gliela restituii.
Una parola salvata.
Poi gli consegnai il mio foglio.
Mi guardò con stupore e lo prese con una lentezza ed una delicatezza tale da intenerirmi.
Guardò il suo ritratto, non di come era adesso ma di come i miei occhi lo avevano immaginato in gioventù.
Vidi una lacrima scendere e percorrere i solchi di un viso segnato da una vita non vissuta.
Poi mi guardò:
“Ero esattamente così tanti anni fa. E’ bello scendere in una fotografia”.
L’ho lasciato lì, mentre giocava con le sue parole, quelle appena pronunciate e quelle che mai avrebbe detto.

IL PRIMO SGUARDO


Bastò quel primo timido sguardo
perché tu ti insinuassi
nell’intervallo che c’è fra me e me.
Ho gridato il tuo nome senza saperlo
e senza voce l’ho urlato al vento.
Non so come tu abbia fatto a sentirmi
nè a leggere dentro di me
cose mai scritte.
So solo che da allora le cose a cui assisto
sono uno spettacolo con un altro scenario.

PARTENZA PER UN LUNGO DOVE


Un treno fermo sullo sfondo del mio campo visivo
il brusio senza voce di una folla che non vedo
qualcuno mi urta violentemente senza sfiorarmi
vacilla solo il mio cuore basculante.
Io e te davanti a quel treno fermo
che presto partirà per un lungo dove.
E guardandoci negli occhi respiriamo noi
per un tempo che nessuna lancetta misurerà mai.

E' DI NOTTE CHE SI APRONO LE FERITE


Quando il giorno mi pugnala
è di notte che si aprono le ferite.
Perchè il buio amplifica il dolore
e l’eco delle parole non dette
mi urla dentro fino a farmi paura.
Certi gesti, certe immagini, certi sguardi
che non ho voluto vedere
salgono lentamente la china della coscienza
toccandomi una spalla.
Sobbalzo ed un brivido mi percuote.
Sarà il freddo di fuori, sarà il gelo di dentro.
Una folata di vento si insinua nella mia anima
asciugando le ultime lacrime.
E’ così che aspetto le prime luci dell’alba
ad illuminare la mia vita
tra un respiro affannoso ed un opaco sorriso.

ACCENDERO' UNA STELLA

Foto di Adolfo Valente
http://www.adolfovalente.com 
  

Nei miei occhi la notte,
per anni quel buio affamato di me
a divorare l’eco dei miei silenzi.
E quel freddo a regalarmi brividi di paura.
Nessuno mai mi ha insegnato
ad accendere le stelle.
Poi, dal nulla, tu.
Con la carezza di uno sguardo
hai illuminato la notte per me.
Con pazienza hai cominciato a trasformare
la mia assenza in una presenza sfumata
e poi in una vita avida di vita.
Questa sera accenderò la mia prima stella
per te.

L'AUTUNNO DELLE EMOZIONI


Quando l’autunno delle emozioni mi assale,
aspetto che cada fino all’ultima foglia dei miei pensieri.
Su quel tappeto giallo bruno mi sdraio
mentre la pioggia di foglie
volteggiando
continua a coprirmi scoprendo le mie fragilità.
Ma oggi,
con quelle foglie che conosco una ad una,
riesco anche a giocarci
chiamandole per nome.
Le lascio scorrere tra le mie mani
sollevandole da terra,
le sfioro, le accarezzo e poi le raccolgo
una alla volta
perchè tutte meritano il mio sguardo.
Quando esco di casa cerco l’estate
e sulla riva del mare,
abbagliate dal sole
le faccio volare.
Le osservo planare sulla sabbia rovente
ed è una pioggia d’autunno
in un mare d’estate.

IL REGALO DEL MARE

Perchè non sempre si può scappare, fuggire dal proprio passato. Ci sono momenti in cui il passato ti raggiunge. Tu sei lì a riprendere il fiato, solo per un minuto, madido di sudore e la tua vita ti ha già raggiunto. Non sarai mai veloce abbastanza per staccarti dalla tua ombra, mai veloce abbastanza per cancellare ciò che è stato.
Ci sono ferite che non si cicatrizzano mai e giorni in cui giri la clessidra e non scende neanche un granello di sabbia. Il tempo a volte si ferma.
Fu così che Giacomo decise di fermarlo e di fermarsi.
Lo fece perchè voleva ricominciare a vivere e non soltanto sopravvivere. Lo fece perchè era arrivato il momento.
Gli incubi della notte, le grida, le voci, il sangue, quegli occhi, i brividi, le lacrime, la paura, la paura, la paura, la paura.... Voleva porre fine a tutto questo.
Si accovacciò per terra nel cuore della notte, stremato, stanco, impaurito, indifeso. Arreso.
Si lasciò andare a quei pochi ricordi che aveva strappato a fatica dalla sua mente e subito un fitta gli trapassò l’anima. Poteva morire in quello stesso istante o tornare a vivere per sempre.

Si rivide bambino, cinque anni appena e già una tristezza tatuata sul cuore.
Un sorriso a nascondere quel disagio, quel piccolo dolore a cui non sapeva dare un nome ma che rendeva opaco il più bello dei tramonti.
Quella sensibilità particolare, quell’essere così permeabile al mondo che lo circondava.
Quel sentirsi dentro a tutto e dentro tutto.
Quel giorno stava tornando a casa dalla scuola, con la sua cartella, i libri, le matite, il diario e quella malinconia incartata in una pagina di vita mai letta.
Decise all’improvviso di fare una piccola deviazione al suo abituale percorso e così arrivò sulla spiaggia per vedere il suo mare. Aveva sempre un effetto terapeutico su di lui il mare, lo sciabordio delle onde che si infrangevano sugli scogli, quell’immensità che lo affascinava e lo spaventava, il colore cangiante di quella distesa d’acqua, il piacere di camminare a piedi nudi sulla sabbia in attesa dell’abbraccio delle onde.
Anche quel giorno camminò sulla sabbia e poi si voltò a guardare le sue orme cancellate dall’acqua. Era affascinato da quella magia, da quella sensazione di esserci senza esserci, dai segni di una presenza che diventava assenza.
Dieci passi e si girava a guardare il suo niente.
Poi vide qualcosa tra la sabbia, un bagliore calamitò la sua attenzione.
Si avvicinò guardingo e piano piano estrasse un piccolo soldatino. Sembrava quasi d’oro tanto brillava alla luce del sole. Lo prese con se, lo sciacquò nell’acqua del mare e lo osservò meglio.
Gli sembrò bellissimo, aveva lo sguardo di un guerriero che non conosceva la paura, gli occhi di chi sfida il mondo con un coraggio che lui non aveva mai avuto.
Chissà da dove veniva, quanta strada aveva fatto, quanti mondi aveva visto!!
Era il regalo del mare e l’ultima onda lo aveva portato fin là solo per lui.
Lo strinse forte tra le mani quasi a voler assorbire quella forza, quel coraggio, quella temerarietà, quella fermezza, quell’eroismo che avrebbe tanto voluto avere.
Sarebbero diventati amici, questo Giacomo lo sapeva. Era il suo primo regalo e glielo aveva fatto il mare.
Si attardò ancora un pò prima di riprendere la strada per casa, era in notevole ritardo e già sapeva che sarebbe stato duramente sgridato per questo.
In quei momenti la sua malinconia era palpabile, avrebbe voluto una realtà diversa o forse semplicemente fuggire altrove. Qualsiasi altrove lo avrebbe salvato.
Man mano che si avvicinava a casa cominciò a sentire le urla e le grida dei suoi genitori in uno dei tanti litigi a cui ormai era abituato. Strinse forte il suo soldatino, aveva bisogno di diventare coraggioso, aveva bisogno di non avere più paura.
Rallentò il passo e sentì accelerare i battiti del cuore. L’urlo straziante della madre lo trafisse ed il silenzio che ne seguì echeggiò per sempre nelle sue orecchie.
Capì che stavolta era diverso, sentì che doveva correre per vedere cosa era successo, doveva correre per proteggere la madre, doveva correre......
Corse Giacomo, inghiottì in breve tempo la distanza che lo separava dalla casa. Da quel giorno non smise più di correre, non smise più di fuggire.
Arrivò trafelato sulla soglia di casa e ciò che vide fu troppo. Un troppo difficile da elaborare, un troppo che lui, nella sua fragilità, non poteva gestire senza impazzire.
La madre a terra giaceva in una pozza di sangue, il padre ancora con un coltello in mano, gli occhi di un animale feroce e braccato, la finestra spalancata sul mare, la tenda bianca che danzava col vento, il giornale sfogliato dalla brezza marina, la tavola apparecchiata, il ticchettio di un orologio che aveva smarrito il tempo, gli occhi del padre che non smettevano di fissarlo, quegli occhi.......... e poi l’odore del pane appena cotto, la mattonella del pavimento sbeccata, il gocciolio del rubinetto che perdeva, il sole nascosto d’improvviso tra le nuvole, il suono delle campane, gli schiamazzi dei bambini.....
Sembrava che i suoi occhi famelici fossero avidi solo dei particolari più insulsi trascurando la gravità dell’accaduto. Come se a terra non ci fosse il corpo martoriato della madre, come se suo padre non fosse un assassino, come se nulla fosse successo.
Un tremito, poi più nulla. Sentii delle voci e vide il buio. Per anni non ricordò più nulla.
I medici dissero che aveva rimosso, che la sua era una forma di difesa.
Straordinario e spaventoso il potere della mente, ti viene in soccorso quando sa che non ce la puoi fare a superare un trauma e allora, senza dirti nulla, strappa pagine di vita dal libro del tuo destino e le conserva con cura fin quando non sarai abbastanza forte da poterle leggere ed elaborare.
Solo allora quelle pagine tornano al loro posto ed il libro viene rilegato con fili di speranza e sofferenza. Lavoro certosino e pieno di insidie.
Con il tempo i parenti gli raccontarono ciò che era successo ma lui non ricordava e non voleva sapere. Non riusciva neanche a visualizzare l’immagine dei suoi genitori e non aveva voluto nessuna loro foto che riportasse a galla bagliori di un tempo lontano e cancellato.
Come se nulla fosse successo.
Eppure.....
Eppure l’odore del pane appena cotto gli dava la nausea. Non aveva mai voluto tende bianche nella sua casa. Il vento gli portava sempre lo stesso odore ed era odore di sangue, odore di paura, odore di morte. Stranezze, pensava.

Nacque per la seconda volta a cinque anni Giacomo ed era un bambino senza passato.
La sua vita sembrava scorrere normalmente se non fosse stato per quella tristezza tatuata sul cuore che si era ingigantita a dismisura, per quell’insofferenza a tutto e a tutti, per quell’ansia che lo accompagnava ovunque andasse, quel disagio perenne fatto di inadeguatezza, l’insonnia, gli incubi, il panico..... Stava male Giacomo e sembrava non sapere il perchè.
Poi cominciarono gli incubi a ricordargli quel passato. Flash di terrore che attraversavano la sua mente, il sangue, il coltello, quegli occhi, il padre, quegli occhi, il sangue, il sangue, il sangue......
Finchè una notte si svegliò di soprassalto ed in preda al panico crollò in un pianto liberatorio.
Pianse Giacomo, per la prima volta in vita sua versò tutte le lacrime che non aveva mai versato. Un fiume in piena a lavare tutto quel sangue che aveva visto e che ora ricordava.
Il passato gli toccò la spalla, riemerse dalle profondità insondate della coscienza, risalì le sue difese e si affacciò con delicata fermezza.
Perchè non sempre si può scappare, fuggire da ciò che è stato. Ci sono momenti in cui il passato ti raggiunge.
Strana la vita, strani i percorsi che ci riserva, gli incontri e gli scontri che ha previsto per noi.
Quella notte, come in un film, rivide tutto e pensò di morire.
Rivisse quella scena del ritorno a casa, rivide ogni più piccolo ed insignificante particolare che la sua mente aveva fotografato, spaziò con lo sguardo in quella che fu la sua casa.
Rivide la madre intenta a cucinare, sentì la sua voce che lo chiamava dal cortile, il padre sempre arrabbiato con il mondo intero..... Adesso pensava persino ai momenti più belli e felici della sua infanzia.
Ed ecco che quelle pagine strappate erano state ricollocate al loro posto ed ora Giacomo le stava sfogliando con mani tremanti. Come un puzzle concluso inserì l’ultimo tassello del mosaico e di nuovo scoppiò in un pianto dirotto.
Ora sapeva. Fu colto da un senso di angoscia e di liberazione allo stesso tempo.
Comprese che non bastava sapere per guarire ma che adesso quelle conoscenze andavano elaborate emotivamente.
Poi, con la lentezza di chi non ha più fretta, si avvicinò all’armadio ed in fondo ad un cassetto prese una vecchia scatola. La aprì con ansia e paura.
Al suo interno ritrovò le foto di lui bambino e quelle dei genitori. Una lacrima cadde su quelle foto ed un nodo in gola sembrava impedirgli di respirare. Poi frugò rabbiosamente in quella scatola e alla fine trovò ciò che cercava: il soldatino dorato forte e coraggioso.

Nacque per la terza volta a trent’anni Giacomo ed era un uomo con un passato difficile. Ma adesso riusciva a voltarsi indietro per guardare negli occhi quei frammenti di vita e di dolore. E smise di fuggire, perchè non sempre si può fuggire da ciò che è stato.
Tornò sulla spiaggia a camminare a piedi nudi sulla sabbia e quando si voltò vide che le sue impronte erano intatte, le onde non erano arrivate fin lì, quasi con rispetto non avevano cancellato il suo passaggio. Anche quella era magia pensò.
Così, intento a camminare tirò fuori dalla tasca il soldatino amico di un’infanzia rubata, lo strinse forte tra le mani e giurò di averlo visto sorridere. Era il suo primo regalo, era il regalo del mare.

EMOZIONI IN FUGA


“Vivo soprattutto in quel che non ho”.
Lo disse piano, come a volersi proteggere dal suono della sua stessa voce, come a volersi difendere da quelle parole. Lo disse piano, con la leggerezza di una piuma che danza nel vento.
E’ incredibile come a volte le persone decidano di rompere la diga che giorno dopo giorno hanno costruito con le proprie mani per arginare le emozioni.
Una vita a costruirsi quella diga, meticoloso lavoro di difesa ed un sorriso a nasconderla.
Ancora più incredibile se si pensa che era solo un vecchio amico che avevo perso di vista da tanti anni e che avevo ritrovato per caso.
Per caso le nostre strade si erano incrociate, di nuovo.
Quasi un estraneo ormai eppure.....
Eppure quel giorno la diga crollò. Sentii il rumore assordante di un cuore in frantumi, vidi detriti di emozioni ingabbiate ed un’ondata impetuosa di vita che mi travolse.
Fu proprio quel giorno che la diga crollò.
Mi chiesi perchè aveva scelto me.
Mi chiesi dove trovò la forza per sopportare i dolori di quel disgelo.
Nel silenzio che seguì, srotolò tutta la sua vita dentro la mia anima.
Lessi un dolore che non conoscevo con occhi che non credevo di avere.
E per la prima volta mi sfiorò un’emozione troppo forte per essere vera, troppo vera per essere mia.
Forse a volte non si cerca un dottore per guarire dalle proprie ferite ma solo qualcuno che abbia ferite simili alle nostre.
Così, rigirando tra le mani il mio stupore lo guardai per la prima volta e solo allora vidi riflessa nei suoi occhi una mia lacrima.
Perchè quella diga crollata aveva sbriciolato anche le mie emozioni trattenute. Emozioni in fuga.
E capii che se fino ad allora era stato un uomo solo, ora era solo un uomo.

AFFETTIVITA' INGABBIATA


So che chi non è mai stato amato
fa fatica ad amare e chi non può amare
fa fatica a vivere.
Così dopo anni mi ritrovo a pensare a te,
a quei moti dell’anima che si fermavano
in gola soffocandoti.
Non lo hai mai compreso allora
ma quei gesti pensati e trattenuti
io li ho osservati ed amati;
quelle parole cercate e mai dette
io le ho ascoltate tutte;
quelle lacrime mai scese
io le ho asciugate.
Mi sentivo un’intercapedine vuota
tra emozioni sospese.
Non avrei potuto darti altro di me
nè ti avrei permesso di togliermi altro.
Se ti incontrassi oggi,
ti prenderei la mano e la farei scivolare
sulla mia guancia in una carezza che tu
non faresti mai.
Così dopo anni mi ritrovo a pensarti,
mi chiedo quante battaglie avrai vinto
nella tua guerra con le emozioni,
se la tua affettività è ancora ingabbiata
o se sei riuscito a spiccare il volo.
Eppure quando penso a te io guardo in alto....

PRESTAMI I TUOI OCCHI


Prestami i tuoi occhi
perchè io possa vedermi come tu mi vedi.
Mi piace il modo in cui ricami
la ragnatela delle mie emozioni,
un filo così fragile che solo le tue mani
riescono a non spezzare.
Mi piace il modo in cui riesci
ad ubriacarti di me e a colorarmi
un mondo senza margini nè confini.
Mi piace il modo in cui cerchi
di insegnarmi a danzare in quel mio spazio
così infinito di cui ignoravo l’esistenza.
Ma dov’eri quando la vita mi è passata accanto
e senza sfiorarmi mi ha calpestata?
Prestami i tuoi occhi
perchè io possa amarmi come mi ami tu.

VENTO CALDO


 Soffia su di me le tue fantasie,
solleva il velo del desiderio
come vento caldo di mani ardite.
Sarò foglia che ondeggia sinuosa
inarcandosi ad ogni tuo sospiro.

URLA NEL SILENZIO


Urlava.
Urlava nelle giornate buie e tempestose, quelle in cui il sole sembrava essersi dimenticato di regalargli il calore di una carezza mai ricevuta.
Lo ricordo da sempre al centro del paese ma ai margini di un marciapiede che era diventato la sua casa. Ogni tanto bighellonava in cerca di pensieri, dava un calcio all’ultimo ricordo e perdendo l’equilibrio cadeva a terra. Dignitosamente si rialzava riaggiustandosi il bavero della giacca e riprendeva il suo cammino senza meta.
Dicevano che era ubriaco, pensavo invece che quei ricordi fossero troppo pesanti da spostare senza caracollare sull’asfalto privo di forze.
Lo vedevo spesso camminare con fare altero tra le viuzze strette del paese. Salutava con un cenno del capo lui, salutava tutti e sempre le sue urla accompagnavano il suono delle campane. Urlava ad ogni rintocco come a voler sovrastare quel suono.
Lo chiamavano il “pazzo del paese”.
Si erano abituati alla sua presenza, al suo girovagare, alla sua voce che squarciava il cielo nelle notti fredde e senza luna.
Quando chiedevo chi fosse, nessuno sapeva rispondermi. Sembrava esistere da sempre, nessuno ricordava da quanto, come se il tempo per lui non fosse mai passato.
Si vociferava che era stato abbandonato appena nato sulle scale della chiesa. Non si sapeva altro e nessuno sembrava interessato a sapere altro.
Se si cercava di avvicinarlo poteva diventare aggressivo. Gridava e si allontanava da tutti fino a diventare un puntino in attesa dell’orizzonte.
Mi incuriosiva quell’uomo senza tempo.
Un giorno in cui il sole splendeva sul paese decisi di avvicinarmi furtivamente a lui in attesa del suono delle campane.
Lo osservavo a debita distanza. Si era sdraiato sulla panchina e sembrava farsi accarezzare dai raggi del sole. Lo vidi sorridere in maniera quasi impercettibile, ma sorrise.
Poi cominciarono a sentirsi i rintocchi delle campane, la messa delle undici stava cominciando e lui subito scattò in piedi e cominciò ad urlare.
Aveva i pugni chiusi serrati contro il mondo, le nocche delle dita bianche per la forte pressione, si ferì con le sue stesse unghie incise nella pelle e una goccia di sangue venne assorbita dall’asfalto rovente. Il volto rivolto al cielo era una maschera di rabbia e paura.
Si  calmò solo quando tornò quel rassicurante silenzio di cui aveva bisogno e crollò seduto sulla panchina, privo di forze e di speranze.
Io ero lì davanti a lui, seduta sul bordo di una fontana. Il riflesso dell’acqua giocava con il mio profilo e pettinava i miei capelli scomposti dal vento. Sapevo che quella fontana era la “sua”.
Stavo invadendo il suo spazio e la sua intimità. Avevo assistito al suo modo di esternare quel dolore aggrovigliato dentro. Io ero lì e non ero fuggita.
Mi guardò con fare attento ma non gridò. Non mi cacciò via. Mi osservava in silenzio.
Poi in silenzio si alzò e venne verso me.
Fui percorsa da un brivido, era paura e curiosità. Rimasi immobile a fissarlo mentre lui avvicinandosi osservava me.
Poi si sedette sul bordo della “sua” fontana, accanto a me e con una mano rugosa toccò l’acqua fresca. Lo guardai mentre i suoi occhi si specchiarono nei miei.
Erano occhi chiari e tristi, c’era un mondo lì dentro. Ho sempre pensato che può bastare uno sguardo a scartare l’anima.
Ad un certo punto mi disse:
“Nessuno si è mai seduto su questa fontana. La gente ha paura di me perché si rivede in parte nella mia follia, perché hanno timore di perdere il controllo e di dare voce alle loro grida interiori. La diversità allontana sempre. Essere diversi vuol dire essere soli.”
Giocò ancora con l’acqua facendola scorrere nella sua mano, poi continuò:
“E tu perchè non sei fuggita?”
Nessuno aveva mai sentito parlare quell’uomo che era lì da sempre.
Lo guardai e perdendomi in quegli occhi che avevano l’aridità del deserto e l’abbraccio del mare, gli dissi:
“Forse perché le tue urla nel silenzio sono come le mie. Urliamo per le stesse cose, sono solo tonalità diverse di una stessa voce, sfumature diverse di uno stesso dolore.”
Sentii la sua voce commossa:
“Se ci fosse qualcuno disposto ad ascoltare senza scappare, non avrei bisogno di urlare e neanche quelle campane potrebbero ferirmi all’infinito. Se solo ci fosse qualcuno che non ha paura di sedersi su questa fontana e toccare la stessa acqua che accarezzo io!”.
Gli sorrisi e il sole illuminò quegli occhi che si riflessero per sempre nei miei.
Non ci furono più urla nel silenzio ma solo parole silenziosamente donate alla mia avidità di ascoltare.

UN ALITO DI SOGNO


Ci sono giorni, come questo,
che mi sussurrano la vita
come appunti a margine
nel grande libro del destino.
Sono le frasi cancellate con furore
a destare il mio interesse.
Le leggo in controluce e le riporto alla vita.
Le faccio esistere di nuovo
e di nuovo le sento pulsare.
Poi ci vorrebbe un alito di sogno,
qualcosa che mi faccia sentire
oltre il mio sentire.
O una brezza di altrove,
qualcosa che mi faccia pensare
oltre il mio pensare.

BALLERO' CON TE


Ho visto il mio nome in fondo al tuo sorriso.
Per un attimo l’ho fotografato,
ne ho scomposto le lettere
e ad una ad una le ho ricamate sul tuo cuore.
Ti ho visto fuggire senza muoverti,
dal riflesso del sole nei tuoi occhi
ho accarezzato il mondo in cui ti sei rifugiato.
Soffice culla di emozioni passate.
Ti ho osservato danzare sulle onde di un mare in tempesta,
abili ed eleganti passi per schivare la realtà,
equilibrista sull’orlo di te stesso.
In punta di piedi entrerò nel tuo mondo segreto,
seguirò la danza dei tuoi pensieri in fuga
e da quel giorno ballerò con te.