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venerdì 13 gennaio 2012

LA LEGGEREZZA DELLA SOLIDARIETA'



Nel silenzio, nel torpore di un giorno che non voleva saperne di volgere al termine, si avvicinò timidamente alla finestra.
Con un gesto lento, di una lentezza esatta, scostò le candide tende che la proteggevano dal mondo circostante.
Ciò che vide non le piacque.
Nulla che potesse scuoterla veramente, nessuna scena traboccante di qualche forma di drammaticità. Tutto apparentemente era normale.
Gente che camminava frettolosamente incurante di cose e persone, il solito traffico, il suono di un clacson, la sirena di un’ambulanza, i ragazzi del mercato che incitavano ad acquistare a prezzi esigui la loro mercanzia.
Eppure, eppure in quella apparente tranquillità c’era qualcosa che non andava.
Non se ne rese conto subito ma c’era come una stonatura appena percettibile in un concerto che, per orecchie esperte, sarebbe diventato elemento di disturbo sufficiente a falsare l’intera opera.
Riguardò attentamente la scena e le persone che erano sulla strada. Voleva individuare ciò che la disturbava fino a crearle una pacata inquietudine interiore.
Poi, all’improvviso comprese.
Di tutta quella gente nessuno sguardo incrociava quello di qualcun’altro.
Nessuno si guardava pur sfiorandosi vicino al mercato.
Le sembravano tante marionette, manichini tolti dalle vetrine e messi lì per caso.
Osservò ancora un po’. La situazione non migliorò.
Era l’indifferenza a turbarla.
Era quella consapevolezza che tutto sarebbe potuto accadere senza che nessuno se ne accorgesse o peggio, senza che nessuno intervenisse.
Stare in mezzo alla folla completamente isolati.
Un mondo che non avrebbe scelto se solo glielo avessero permesso.
Mentre stava per chiudere le tende, vide in fondo alla strada un uomo che a poco a poco, appoggiato alle mura di un palazzo, chiuse gli occhi e si lasciò scivolare su se stesso.
Il cuore le saltò in gola, aprì la finestra e gridò ma nessuno la sentì e nessuno sembrava essersi accorto di quell’anziano che poteva essere suo padre.
Aprì la porta e scese le scale macinando i gradini due a due mentre chiamava i soccorsi, arrivò accanto a quel signore e cominciò a chiedere aiuto. Solo allora qualcuno si fermò per poi proseguire.
Si formò un capannello di gente mossa solo dalla curiosità.
Sentì che l’uomo respirava ancora. Si sedette accanto a lui e per un attimo cancellò i volti delle persone che le stavano di fronte.
Ecco, ora per lei non esistevano più. Erano i manichini che aveva osservato dalla finestra.
Prese il polso dell’uomo, il battito era flebile. Gli chiese se poteva ascoltarlo e lui fece cenno di si con la testa. Stava per dire qualcosa, non si capiva cosa.
Fece segno di guardare nella tasca della giacca perché aveva una medicina.
Allora lei non si perse d’animo, mise le mani in tasca e trovò un scatola di compresse. Gli chiese se aveva bisogno di una di quelle per stare bene.
Intanto da un vicino negozio portarono un bicchiere di acqua.
Il respiro si faceva sempre più affannoso, richiamò i soccorsi, stavano arrivando.
L’uomo le strinse la mano con una forza di cui si sorprese.
Le fece capire che doveva prendere quel farmaco per stare meglio.
Dio! Perché non arrivava l’ambulanza. Prese il bicchiere d’acqua, estrasse una compressa e la diede all’uomo che la mandò giù come una salvezza.
Poi chiuse gli occhi e a poco a poco cominciò a respirare più facilmente.
Si voltò verso di lei, le strinse la mano e le sorrise.
Elena si accorse di sentirsi stremata e di avere gli occhi lucidi.
Il signore le si avvicinò e con un filo di voce disse:- Mi chiamo Mario.
- Io invece mi chiamo Elena. Ci ha fatto prendere un bello spavento ma tra poco arriva l’ambulanza.
Mario non rispose, apriva e chiudeva gli occhi cercando di dare un ritmo regolare al proprio respiro.
Poi si voltò di nuovo verso di lei senza lasciarle la mano.
- Grazie Elena, mi hai salvato la vita. Avrei tanto desiderato avere una figlia come te.
Elena non riuscì più a trattenere le lacrime.
Sentì il suono della sirena che si fermò davanti a loro, vide negli occhi dell’anziano un timore, una sorta di paura, sentì la percezione fredda della solitudine. Sapeva già cosa lo aspettava.
Il personale dell’ambulanza lo mise su un lettino, chiesero cosa era successo. Elena spiegò tutto mentre continuava a sentire la mano dell’uomo che non lasciava la sua, le unghie conficcate nella sua pelle.
La ragazza si avviò con lui verso l’ambulanza.
Un tizio in modo burbero le disse che non poteva salire.
Allora lei guardò Mario, avevano entrambi gli occhi lucidi.
Le stava chiedendo di non abbandonarlo.
Elena, con fare risoluto disse:
- Io salgo. Sono la figlia.
Poi lo guardò nuovamente. Ormai le lacrime sgorgavano senza sosta sul volto dell’uomo. Per la prima volta pensò che quel viaggio a sirene spiegate verso l’ospedale, sarebbe stato il più bel viaggio che aveva mai fatto in vita sua.
Ancora mano nella mano, come se davvero li unisse un amore filiale, si guardarono e si sorrisero.
Elena non lo abbandonò finché non venne dimesso.
Da allora andò a trovarlo tutti i pomeriggi e cominciò a chiamarlo papà, per quella figlia che non ebbe mai ma che incontrò per caso in un giorno diverso da tutti quelli della sua vita.

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