Urlava.
Urlava nelle giornate buie e tempestose, quelle in cui il sole sembrava essersi dimenticato di regalargli il calore di una carezza mai ricevuta.
Lo ricordo da sempre al centro del paese ma ai margini di un marciapiede che era diventato la sua casa. Ogni tanto bighellonava in cerca di pensieri, dava un calcio all’ultimo ricordo e perdendo l’equilibrio cadeva a terra. Dignitosamente si rialzava riaggiustandosi il bavero della giacca e riprendeva il suo cammino senza meta.
Dicevano che era ubriaco, pensavo invece che quei ricordi fossero troppo pesanti da spostare senza caracollare sull’asfalto privo di forze.
Lo vedevo spesso camminare con fare altero tra le viuzze strette del paese. Salutava con un cenno del capo lui, salutava tutti e sempre le sue urla accompagnavano il suono delle campane. Urlava ad ogni rintocco come a voler sovrastare quel suono.
Lo chiamavano il “pazzo del paese”.
Si erano abituati alla sua presenza, al suo girovagare, alla sua voce che squarciava il cielo nelle notti fredde e senza luna.
Quando chiedevo chi fosse, nessuno sapeva rispondermi. Sembrava esistere da sempre, nessuno ricordava da quanto, come se il tempo per lui non fosse mai passato.
Si vociferava che era stato abbandonato appena nato sulle scale della chiesa. Non si sapeva altro e nessuno sembrava interessato a sapere altro.
Se si cercava di avvicinarlo poteva diventare aggressivo. Gridava e si allontanava da tutti fino a diventare un puntino in attesa dell’orizzonte.
Mi incuriosiva quell’uomo senza tempo.
Un giorno in cui il sole splendeva sul paese decisi di avvicinarmi furtivamente a lui in attesa del suono delle campane.
Lo osservavo a debita distanza. Si era sdraiato sulla panchina e sembrava farsi accarezzare dai raggi del sole. Lo vidi sorridere in maniera quasi impercettibile, ma sorrise.
Poi cominciarono a sentirsi i rintocchi delle campane, la messa delle undici stava cominciando e lui subito scattò in piedi e cominciò ad urlare.
Aveva i pugni chiusi serrati contro il mondo, le nocche delle dita bianche per la forte pressione, si ferì con le sue stesse unghie incise nella pelle e una goccia di sangue venne assorbita dall’asfalto rovente. Il volto rivolto al cielo era una maschera di rabbia e paura.
Si calmò solo quando tornò quel rassicurante silenzio di cui aveva bisogno e crollò seduto sulla panchina, privo di forze e di speranze.
Io ero lì davanti a lui, seduta sul bordo di una fontana. Il riflesso dell’acqua giocava con il mio profilo e pettinava i miei capelli scomposti dal vento. Sapevo che quella fontana era la “sua”.
Stavo invadendo il suo spazio e la sua intimità. Avevo assistito al suo modo di esternare quel dolore aggrovigliato dentro. Io ero lì e non ero fuggita.
Mi guardò con fare attento ma non gridò. Non mi cacciò via. Mi osservava in silenzio.
Poi in silenzio si alzò e venne verso me.
Fui percorsa da un brivido, era paura e curiosità. Rimasi immobile a fissarlo mentre lui avvicinandosi osservava me.
Poi si sedette sul bordo della “sua” fontana, accanto a me e con una mano rugosa toccò l’acqua fresca. Lo guardai mentre i suoi occhi si specchiarono nei miei.
Erano occhi chiari e tristi, c’era un mondo lì dentro. Ho sempre pensato che può bastare uno sguardo a scartare l’anima.
Ad un certo punto mi disse:
“Nessuno si è mai seduto su questa fontana. La gente ha paura di me perché si rivede in parte nella mia follia, perché hanno timore di perdere il controllo e di dare voce alle loro grida interiori. La diversità allontana sempre. Essere diversi vuol dire essere soli.”
Giocò ancora con l’acqua facendola scorrere nella sua mano, poi continuò:
“E tu perchè non sei fuggita?”
Nessuno aveva mai sentito parlare quell’uomo che era lì da sempre.
Lo guardai e perdendomi in quegli occhi che avevano l’aridità del deserto e l’abbraccio del mare, gli dissi:
“Forse perché le tue urla nel silenzio sono come le mie. Urliamo per le stesse cose, sono solo tonalità diverse di una stessa voce, sfumature diverse di uno stesso dolore.”
Sentii la sua voce commossa:
“Se ci fosse qualcuno disposto ad ascoltare senza scappare, non avrei bisogno di urlare e neanche quelle campane potrebbero ferirmi all’infinito. Se solo ci fosse qualcuno che non ha paura di sedersi su questa fontana e toccare la stessa acqua che accarezzo io!”.
Gli sorrisi e il sole illuminò quegli occhi che si riflessero per sempre nei miei.
Non ci furono più urla nel silenzio ma solo parole silenziosamente donate alla mia avidità di ascoltare.
Urlava nelle giornate buie e tempestose, quelle in cui il sole sembrava essersi dimenticato di regalargli il calore di una carezza mai ricevuta.
Lo ricordo da sempre al centro del paese ma ai margini di un marciapiede che era diventato la sua casa. Ogni tanto bighellonava in cerca di pensieri, dava un calcio all’ultimo ricordo e perdendo l’equilibrio cadeva a terra. Dignitosamente si rialzava riaggiustandosi il bavero della giacca e riprendeva il suo cammino senza meta.
Dicevano che era ubriaco, pensavo invece che quei ricordi fossero troppo pesanti da spostare senza caracollare sull’asfalto privo di forze.
Lo vedevo spesso camminare con fare altero tra le viuzze strette del paese. Salutava con un cenno del capo lui, salutava tutti e sempre le sue urla accompagnavano il suono delle campane. Urlava ad ogni rintocco come a voler sovrastare quel suono.
Lo chiamavano il “pazzo del paese”.
Si erano abituati alla sua presenza, al suo girovagare, alla sua voce che squarciava il cielo nelle notti fredde e senza luna.
Quando chiedevo chi fosse, nessuno sapeva rispondermi. Sembrava esistere da sempre, nessuno ricordava da quanto, come se il tempo per lui non fosse mai passato.
Si vociferava che era stato abbandonato appena nato sulle scale della chiesa. Non si sapeva altro e nessuno sembrava interessato a sapere altro.
Se si cercava di avvicinarlo poteva diventare aggressivo. Gridava e si allontanava da tutti fino a diventare un puntino in attesa dell’orizzonte.
Mi incuriosiva quell’uomo senza tempo.
Un giorno in cui il sole splendeva sul paese decisi di avvicinarmi furtivamente a lui in attesa del suono delle campane.
Lo osservavo a debita distanza. Si era sdraiato sulla panchina e sembrava farsi accarezzare dai raggi del sole. Lo vidi sorridere in maniera quasi impercettibile, ma sorrise.
Poi cominciarono a sentirsi i rintocchi delle campane, la messa delle undici stava cominciando e lui subito scattò in piedi e cominciò ad urlare.
Aveva i pugni chiusi serrati contro il mondo, le nocche delle dita bianche per la forte pressione, si ferì con le sue stesse unghie incise nella pelle e una goccia di sangue venne assorbita dall’asfalto rovente. Il volto rivolto al cielo era una maschera di rabbia e paura.
Si calmò solo quando tornò quel rassicurante silenzio di cui aveva bisogno e crollò seduto sulla panchina, privo di forze e di speranze.
Io ero lì davanti a lui, seduta sul bordo di una fontana. Il riflesso dell’acqua giocava con il mio profilo e pettinava i miei capelli scomposti dal vento. Sapevo che quella fontana era la “sua”.
Stavo invadendo il suo spazio e la sua intimità. Avevo assistito al suo modo di esternare quel dolore aggrovigliato dentro. Io ero lì e non ero fuggita.
Mi guardò con fare attento ma non gridò. Non mi cacciò via. Mi osservava in silenzio.
Poi in silenzio si alzò e venne verso me.
Fui percorsa da un brivido, era paura e curiosità. Rimasi immobile a fissarlo mentre lui avvicinandosi osservava me.
Poi si sedette sul bordo della “sua” fontana, accanto a me e con una mano rugosa toccò l’acqua fresca. Lo guardai mentre i suoi occhi si specchiarono nei miei.
Erano occhi chiari e tristi, c’era un mondo lì dentro. Ho sempre pensato che può bastare uno sguardo a scartare l’anima.
Ad un certo punto mi disse:
“Nessuno si è mai seduto su questa fontana. La gente ha paura di me perché si rivede in parte nella mia follia, perché hanno timore di perdere il controllo e di dare voce alle loro grida interiori. La diversità allontana sempre. Essere diversi vuol dire essere soli.”
Giocò ancora con l’acqua facendola scorrere nella sua mano, poi continuò:
“E tu perchè non sei fuggita?”
Nessuno aveva mai sentito parlare quell’uomo che era lì da sempre.
Lo guardai e perdendomi in quegli occhi che avevano l’aridità del deserto e l’abbraccio del mare, gli dissi:
“Forse perché le tue urla nel silenzio sono come le mie. Urliamo per le stesse cose, sono solo tonalità diverse di una stessa voce, sfumature diverse di uno stesso dolore.”
Sentii la sua voce commossa:
“Se ci fosse qualcuno disposto ad ascoltare senza scappare, non avrei bisogno di urlare e neanche quelle campane potrebbero ferirmi all’infinito. Se solo ci fosse qualcuno che non ha paura di sedersi su questa fontana e toccare la stessa acqua che accarezzo io!”.
Gli sorrisi e il sole illuminò quegli occhi che si riflessero per sempre nei miei.
Non ci furono più urla nel silenzio ma solo parole silenziosamente donate alla mia avidità di ascoltare.
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