Racconto ispirato alla foto scattata da Fabrizio Susini nell’ex manicomio di Volterra
Fa male la mente quando i pensieri si affollano di paure, manie, ansie, terrore.
Quando il mondo comincia a fare un altro rumore che senti solo tu e le tue grida s’innalzano verso un cielo senza Dio.
Mi sono difesa da me stessa prima di affogare in quel mare di feroce sensibilità che era limite di vita e di morte.
Sapevo ancora chi ero quando varcai quella soglia, reclusa e abbandonata in un inferno creato da uomini “sani”. Sapevo chi ero ma cercai di dimenticarlo.
Dondolavo ritmicamente a testa bassa, occhi a terra, seduta su una sedia perché quella realtà non mi ferisse oltre. Restavo in attesa di nuove paure e vecchi timori. Fitte al cuore ad accartocciare un’anima già provata e calpestata.
Eppure capivo, provavo, sentivo.
Avrei avuto bisogno di una carezza, di uno sguardo che non temesse di posarsi sul mio volto, di fissare i miei occhi stanchi e senza più lacrime. Avrei avuto bisogno di comprensione e amore.
Ho sempre pensato che con l’amore tutti i miei compagni di viaggio si sarebbero salvati.
Ma c’è penuria d’amore per i diversi, allora come oggi.
C’è paura d’amore allora come oggi.
Avevo la necessità di ricordare gli episodi più piacevoli della mia vita fin quando sono rimasta lì dentro. Perché la gente deve sapere una cosa.
Non si nasce folli.
Si accumulano esperienze, assenze, mancanze, ferite, violenze e poi un bel giorno tutto questo esplode. Prima c’è un’implosione nell’anima, il cuore che batte, la paura di tutto e di tutti, il sudore che imperla la fronte, i fantasmi della notte e di giorni senza più luce.
Poi si perde il controllo su quell’emotività che già ti ha ucciso anche se continui a respirare.
Nessuno è immune dalla follia e chi pensa di esserlo è già folle senza saperlo.
Di quel posto ricordo le urla e la solitudine.
Una solitudine diversa dalle altre. Una solitudine che era vuoto di emozioni.
Ricordo ancora e mai vorrei scordare per lasciare alle generazioni future un’impronta della mia storia che è stata uguale o migliore di tante altre storie.
Oggi so ancora chi sono e ho imparato a vivere.
Quando mi guardo attorno e vedo la gente piena di frustrazioni e insoddisfazioni, persone che corrono per paura di fermarsi a pensare, allora sorrido e mi sento più “sana” di loro che non sanno e mai vorrebbero sapere.
Oggi io so chi sono e il domani non potrà mai più farmi paura.
Quando il mondo comincia a fare un altro rumore che senti solo tu e le tue grida s’innalzano verso un cielo senza Dio.
Mi sono difesa da me stessa prima di affogare in quel mare di feroce sensibilità che era limite di vita e di morte.
Sapevo ancora chi ero quando varcai quella soglia, reclusa e abbandonata in un inferno creato da uomini “sani”. Sapevo chi ero ma cercai di dimenticarlo.
Dondolavo ritmicamente a testa bassa, occhi a terra, seduta su una sedia perché quella realtà non mi ferisse oltre. Restavo in attesa di nuove paure e vecchi timori. Fitte al cuore ad accartocciare un’anima già provata e calpestata.
Eppure capivo, provavo, sentivo.
Avrei avuto bisogno di una carezza, di uno sguardo che non temesse di posarsi sul mio volto, di fissare i miei occhi stanchi e senza più lacrime. Avrei avuto bisogno di comprensione e amore.
Ho sempre pensato che con l’amore tutti i miei compagni di viaggio si sarebbero salvati.
Ma c’è penuria d’amore per i diversi, allora come oggi.
C’è paura d’amore allora come oggi.
Avevo la necessità di ricordare gli episodi più piacevoli della mia vita fin quando sono rimasta lì dentro. Perché la gente deve sapere una cosa.
Non si nasce folli.
Si accumulano esperienze, assenze, mancanze, ferite, violenze e poi un bel giorno tutto questo esplode. Prima c’è un’implosione nell’anima, il cuore che batte, la paura di tutto e di tutti, il sudore che imperla la fronte, i fantasmi della notte e di giorni senza più luce.
Poi si perde il controllo su quell’emotività che già ti ha ucciso anche se continui a respirare.
Nessuno è immune dalla follia e chi pensa di esserlo è già folle senza saperlo.
Di quel posto ricordo le urla e la solitudine.
Una solitudine diversa dalle altre. Una solitudine che era vuoto di emozioni.
Ricordo ancora e mai vorrei scordare per lasciare alle generazioni future un’impronta della mia storia che è stata uguale o migliore di tante altre storie.
Oggi so ancora chi sono e ho imparato a vivere.
Quando mi guardo attorno e vedo la gente piena di frustrazioni e insoddisfazioni, persone che corrono per paura di fermarsi a pensare, allora sorrido e mi sento più “sana” di loro che non sanno e mai vorrebbero sapere.
Oggi io so chi sono e il domani non potrà mai più farmi paura.
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